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La grande luna nera, 1970 |
Oggi proseguiamo questo viaggio
tra arte e scrittura con uno dei tema costitutivi della letteratura
occidentale: l’attesa.
È l’attesa di Maria, del Redentore,
della Terra Promessa (Bibbia); è l’attesa
di Penelope (Odissea); è
l’attesa che condiziona la vita in Leopardi (Il sabato del villaggio) o in Kafka (Il messaggio dell’imperatore); è l’attesa come pienezza vitale in
Hesse (Siddharta); è l’attesa come
illusione, disperazione, miseria in Màrquez (Nessuno scriva al colonnello); è l’attesa che tiene in vita in
Beckett (En Attendant Godot).
Serpeggiando tra le pagine della
letteratura, l’attesa arriva a Buzzati insinuandosi nelle sue opere pittoriche
come in quelle letterarie e spostando il senso del racconto da ciò che accade a
una sostanziale mancanza di grandi avvenimenti: il “senso” in Buzzati sta in
ciò che è solo lasciato intendere ma che l’autore tace.
L’esempio più eclatante forse è
il racconto Qualcosa era successo:
qualcosa sì, ma non sapremo mai cosa. Tutta la narrazione si gioca infatti sull’attesa
del protagonista di scoprire cosa sia successo, ma naturalmente Buzzati si guarda
bene dal dircelo e il lungo viaggio in treno si trasforma in un interminabile
presente vissuto attraverso i pensieri di un anonimo viaggiatore.
Lo stesso accade in opere come Toc, Toc del 1957 e Adieu
del1958: in entrambi i casi la sensazione è quella di un’immobilità
esistenziale, una sospensione sia temporale che spaziale, data dal vuoto
sostanziale dell’ambientazione e dal clima generale di attesa che avvertiamo
misteriosamente. Il lupo sta bussando alla porta, cosa succederà? Il cane ulula
senza voce sotto lo sguardo assente della presenza alla finestra, che ne sarà
di lui?
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Toc, toc, 1957 |
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Adieu, 1958 |
L’attesa come dimensione di
sospensione enigmatica di sapore metafisico la ritroviamo in Buzzati in numerose
opere pittoriche nonché in racconti e romanzi.
Pensiamo per esempio al famoso Il deserto dei tartari. Qui l’attesa
diventa l’unica vera protagonista della vicenda. Il tutto si svolge in un tempo
indeterminato (manca qualsiasi connotazione temporale) e in un non-luogo, la
Fortezza Bastiani, che non possiamo collocare geograficamente perché manca
qualsiasi indicazione spaziale logica, non è nemmeno segnata sulle mappe;
sappiamo solo che si tratta di un’area di frontiera tra le montagne, che
affaccia sul deserto, altro elemento dall’alto valore significante: è la
materializzazione del vuoto, la metafora del nulla, l’archetipo del silenzio.
Il deserto non è che una pianura immensa, che si spalanca davanti alla
fortezza: da qui potrebbero giungere
degli “invasori” non meglio identificati.
Qui viene stanziato Giovanni
Drogo, il protagonista, appena nominato tenente.
Quando parte alla volta di
questo luogo enigmatico è entusiasta e carico di aspettative, ma ben presto
avverte il vago presentimento di cose fatali. Alla fortezza non deve fare altro
che attendere. I giorni, gli anni trascorrono uguali e monotoni irretendolo in
una routin di azioni e gesti
quotidiani. Si crea un clima di attesa inquieta, irrazionale, spasmodica, che
fa perdere al protagonista (come a tutti gli altri abitanti della fortezza) il
senso del tempo. Assistiamo a uno scollamento tra il tempo della realtà, che
scorre inesorabilmente, e il tempo interiore, quello dell’esistenza
individuale, fissato nell’immobilità dell’azione, nell’inazione connaturata
all’attesa. Un giorno Drogo avvista una macchia nera nel deserto: “gli altri”
stanno costruendo una strada. Un dispaccio avverte di concentrare le truppe. Si
riaccende finalmente la speranza. È giunto infine il grande avvenimento,
l’avvento dei tartari, l’unica cosa che può finalmente dare un senso a
quell’attesa alienante che li aveva tenuti in ostaggio, tutta la vita (Buzzati
suggerisce un’amara metafora dell’esistenza: tutto quello che ci fabbrichiamo
dentro e addosso deve avere un senso, uno scopo, altrimenti è inutile, noi
siamo inutili). Ma Drogo ormai è invecchiato e proprio quando i tanto attesi
nemici sono alle porte, il comandante lo costringe a lasciare la fortezza.
Andandosene vede i giovani soldati procedere verso l’attesa battaglia, l’agognata
gloria. Infine, malato e solo, affronta l’unica vera battaglia, quella uguale
per tutti, la sola per la quale non è vana l’attesa: la morte. Non c’è nulla di
tragico tuttavia in questo, Dorigo muore con il sorriso sulle labbra. Qui come
altrove la morte viene puntualmente esorcizzata da Buzzati come approdo logico
e naturale, è un dato oggettivo, un dato di natura, è l’evento che dà la misura
dell’uomo. Non per nulla nell’opera pittorica Il deserto dei Tartari, chiaramente riferita al romanzo, Drogo è fatto
di nulla, è una divisa militare, si è trasformato in ciò a cui aveva donato
l’esistenza annullando se stesso completamente.
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Il deserto dei Tartari, 1970 |
La stessa dimensione sospesa di
attesa enigmatica e fatale la troviamo in opere come Una fine del mondo, 1967. Una piazza sostanzialmente vuota,
definita da due anonimi palazzi e dalla sagoma nera di una sconosciuta città,
probabilmente Milano dal momento che quando si parla di città in Buzzati è
sempre qui che ambienta romanzi e pitture. Unici elementi a rompere il vuoto
della piazza desolata, una statua in controluce e quattro silhouettes di omini che fuggono. Ma la vera protagonista è la
luna, gigantesca e incombente fino a diventare spaventosa. La stessa luna
inquietante la vediamo in La grande luna
nera, 1969. Questa volta la piazza lascia il posto a una porta di scatola
gialla che non possiamo identificare con una struttura architettonica reale.
Una minuscola figurina sta in piedi, immobile nel giallo piatto e silenzioso.
L’immensa luna, nera questa volta, incombe dall’alto, lasciando presagire solo
catastrofi.
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Una fine del mondo, 1967 |
Ne L’orologio, 1970, invece siamo in un interno, ma non per questo
l’idea di un tempo sospeso e di un’attesa greve è meno palpabile. L’orologio in
primo piano segna le 12 e 23 circa, il pendolo è bloccato, come immortalato
durante la sua oscillazione. La ragazza, misteriosamente nuda, ci rivolge uno
sguardo assente, vuoto. Regge nell’unica mano che vediamo un rosario. Il tono
cupo e l’atmosfera buia sono rotti dal filtrare di un fascio di luce attraverso
una porta, al centro della quale si staglia in controluce un’angosciante
presenza. Non sappiamo se si tratti di un uomo o una donna, non sappiamo
nemmeno se si tratti di un essere umano. Sicuramente, il suo stare in piedi
immobile sulla soglia concorre, più di ogni altro elemento sulla tela, a
generare una sensazione di sospensione enigmatica e inquietante.
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L'orologio, 1970 |
In tutti e tre i casi è forte
la, più o meno esplicita, atmosfera metafisica. La piazza semideserta di Una fine del mondo, la muta presenza de La grande luna nera, l’orologio
dell’omonimo dipinto, sono tutti elementi che inevitabilmente ci fanno pensare
a Giorgio de Chirico. L’attesa e l’enigma d’altronde sono elementi connaturati
alla pittura metafisica, per questo probabilmente Buzzati si sente così vicino
a questa poetica.
Un altro esempio di narrazione
in cui la vera protagonista è l’attesa, è Un
amore (1963). Antonio Dorigo, architetto di 49 anni, conosce Laide, una
giovane prostituta, che non ha nemmeno la metà dei suoi anni. Dall’iniziale
indifferenza dell’uomo nei suoi confronti ci troviamo noi stessi invischiati in
una spirale di passione irrazionale. Attraverso una subdola excalation di piccoli, inavvertibili
eventi, Laide diventa ben presto una fissazione, un’ossessione, che fa perdere
completamente la testa a Dorigo, il quale rischia tutto, e si trova sull’orlo
del baratro, della rovina, completamente consumato dal desiderio di averla solo
per sé. Lei, impudente e inafferrabile si muove leggera tra le pagine del
romanzo con grande ingenuità e leggerezza. Ed è proprio questo a farlo
impazzire. Per cui l’attesa, in questo caso, non si gioca sui tempi morti, come
del Deserto, ma si inserisce in
questa spirale infernale, prendendosi continuamente gioco di Dorigo, il quale
non fa che aspettare, e più si innamora, più le attese diventano lunghe,
strazianti, ridicole. Alla fine, quando finalmente Laide può dirsi sua, il
desiderio sparisce. Laddove finalmente ottiene la dedizione esclusiva della
donna, tutto perde improvvisamente significato.
«Ma intanto lei, portata via dal sonno, inconsapevole del male che ha
fatto e che farà, si libra sotto i tetti i lucernari le terrazze le guglie di
Milano, è una cosa giovane piccolissima e nuda, è un tenero e bianco granellino
sospeso pulviscolo di carne, o di anima forse, con dentro un adorato e
impossibile sogno. […] Ma la città dormiva, le strade erano deserte, nessuno,
neppure lui alzerà gli occhi a guardarla»
Nel Deserto, come in Un amore,
ci troviamo difronte all’idea di una vita passata ad aspettare un evento che
sia portatore di senso, di pace, di soddisfazione. Ma ciò non avviene mai e in
entrambi Buzzati ci prospetta l’amara consapevolezza che il vero evento,
l’unica cosa che rende magico e desiderabile l’obbiettivo, è l’attesa stessa.
L’attesa, insomma, è prima di
tutto una condizione esistenziale, quella dell’uomo novecentesco, oppresso e
alienato dai meccanismi della società contemporanea, imprigionato nella routin della vita quotidiana. Una vita
vissuta in funzione di un futuro imprecisato, aspettando l’avvenimento che
finalmente darà un senso a questa esistenza grama. La verità, lo sappiamo, è
che non c’è nulla da attendere, se non la morte.
JessB
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