L'albero, 1911 |
«Ho
visto anzitutto gli eterni viali primaverili e la tempesta furiosa, e ho dovuto
prendere congedo. Congedo perenne da ogni luogo della vita» Egon Schiele
Quella di Schiele è
un’esistenza tormentata, l’esistenza breve e problematica di un puer eternus, un artista che vive
appieno l’insostenibile pesantezza
dell’essere.
1905:
a Parigi, Dresda e Vienna nasce la prima Avanguardia storica, quella che verrà
poi definita “fascia fauve-espressionista”: un asse che mette in collegamento
tre stati nel nome di una referenzialità filtrata dal disagio. A fare da
denominatore comune una sostanziale insofferenza nei confronti della forma e
quindi della figura: la figurazione ormai è percepita come qualcosa di obsoleto
che non può avere un futuro, è un nemico da combattere ma del quale gli artisti
non riescono ancora a liberarsi (come invece farà l’Astrattismo dal 1910,
riuscendo a superare la forma per entrare in una dimensione nuova, quella della
non-rappresentazione).
Gli
espressionisti vivono e soffrono questa contraddizione affascinante: odiano la
figura ma continuano a dipingere in modo figurativo, dibattendosi tra il non più e il non ancora, non potendo far altro che infierire sulla figura,
bistrattarla, ferirla, spezzarla, deformarla…
Chiaramente
dobbiamo fare le debite distinzioni: i tedeschi spingono sull’acceleratore per
portare la forma ad un grado di dissidio con sé stessa molto più forte di
quanto facciano i francesi. I Fauves hanno nel loro DNA una mai abbandonata
tendenza all’armonia, alla dolcezza, alla finesse;
per quanto cerchino di essere crudi, non lo saranno mai come i tedeschi, i
quali invece hanno una vocazione diretta alla brutalità.
Schiele
fa di più: l’Espressionismo austriaco è più attento al corpo, alla fisicità,
rispetto all’Espressionismo tedesco, che, pur non disdegnando il tema del
corpo, non ne fa il suo cavallo di battaglia: nelle opere di Kirchner per
esempio ci sono anche paesaggi, città, piazze berlinesi. È difficile trovare un
paesaggio o una piazza in Schiele: nelle sue opere ci sono corpi, e sono spesso
nudi e soli; uomini soli, alberi soli, primissimi piani di persone, case a
volte, ma mai paesaggi. La sua è una pittura rapida, diretta, immediata,
pulsante, sgrammaticata, nevrotica, impietosa nei confronti del corpo. Il suo è
un disegno feroce, crudele, che mette in scena fisionomie artritiche, deformi,
mutile.
Nudo di ragazza con braccia incrociate sul petto, 1910 |
Ma che
dipinga un committente, la sorella Gerti, un albero... poco importa. In fondo
si tratta sempre e comunque di autoritratti, in cui Schiele sfoga le proprie
inquietudini, dichiara la propria avversione nei confronti del mondo, confessa
le proprie paure, quel suo sentirsi indifeso difronte al mondo.
Il
tema dell’autoritratto è un tema estremamente rilevante per la storia
dell’arte, un tema che ha attraversato i secoli. La maggior parte degli artisti
ci si sono confrontati, molti hanno cercato il senso dell’arte attraverso il
senso della propria immagine, ma pochi lo hanno sviluppato così intensamente
come Schiele e nessuno si è mai visto allo specchio in maniera così impietosa.
Più di tutti egli ha voluto mettere in luce la brutta copia di sé.
L’autoritratto per Schiele è un modo per confessare la propria inconciliabilità
con le cose, il proprio disadattamento esistenziale, la propria incapacità di
esistere.
Autoritratto, 1910 |
Ma c’è
di più… non solo Schiele se la prende con il corpo, egli concentra l’azione
deformante su elemento in particolare: le mani. Non c’è nessuno che abbia
trattato così intensamente le mani in tutta l’arte contemporanea.
Le
mani sono la parte del corpo più materiale (perché pratica) e
contemporaneamente la più spirituale: secondo la filosofia orientale è la parte
del corpo che si può spingere più in alto, verso lo spirito, ma per farlo deve
essere vuota. Esiste un aneddoto yogico che facilita la comprensione di questo
concetto: c’è un’ampolla che contiene noccioline e c’è un uomo che è goloso di
noccioline. La mano entra e si riempie di noccioline, ma in questo modo non può
più uscire. Per uscire deve essere vuota, deve abbandonare le noccioline. Qui
sta la forza dello spirito. La mano che entra nell’ampolla e vuole uscire con
il suo carico di desiderio realizzato non è altro che materialità. Nel momento
in cui rinuncia al desiderio invece diventa spirituale. Le dottrine orientali
ci insegnano a rinunciare ai desideri materiali per raggiungere una dimensione
spirituale (che non ha nulla a che fare con la religione...).
Quindi,
li mani per essere spirituali devono essere vuote, e in genere nelle opere di Schiele
lo sono, pur non essendo in grado di elevarsi a una condizione di armonia
spirituale. Esse rappresentano il contatto con il mondo ma non si tratta di un
rapporto sereno. Sono l’apogeo della simbologia del corpo shieleiano, la
manifestazione esteriore di una condizione interiore di disagio. E allora, se è
vero che le mani in Schiele hanno una forte valenza spirituale, si tratta
certamente di uno spirito tormentato, contorto. Persino in un’opera come Gli amanti, del 1917, sono la
spia del tormento esistenziale dell’essere umano: anche nel calore
dell’abbraccio, esse denunciano una divisione, una divaricazione, un disagio.
C’è unione nei corpi ma disunione nelle dita che si divaricano.
Gli amanti, 1917 |
È qui,
nelle mani, che si condensa tutta la tensione dell’artista espressionista,
dell’artista e dell’uomo nella Vienna del primo Novecento: sulle spalle il peso
di un passato glorioso e all’orizzonte l’imminenza dell’ingloriosa fine
dell’Impero e di un’ epoca.
Ancora
più significativo appare questo rapporto problematico con questa parte del corpo se pensiamo
al fatto che Schiele lavora con le mani, sono il suo strumento di lavoro,
quindi il suo organo fondamentale. Per altro egli aveva un metodo di esecuzione
molto rapido e sicuro, non cancellava mai. Eppure se osserviamo le immagini,
vediamo dita divaricate, sempre molto nervose, legnose; posture ai limiti dell’alienazione;
mani che vivono di una vita autonoma rispetto ai corpi, come se non fossero
terrestri; mani che di certo non possono essere utilizzate, come abbiamo detto,
sintomo di un’alterazione psicofisica, specchio di un disagio. È una specie di
confessione di disadattamento all’arte e alla vita. Due dita da una parte e due
dall’altra, cosa altro possono significare se non la scissione dell’Io
dell’uomo novecentesco, sempre in bilico nella lotta tra Es e Superego? Tra
l’artista e sé stesso? Una sorta di schizofrenia vive in Schiele, una
pluridimensionalità che si rivela anche nei suoi scritti e nelle sue poesie
(scritte tra i 19 e i 20 anni). Schiele scrivendo ci stupisce, dimostra nelle
poesie di essere anche innamorato delle cose del mondo e della vita, aprendo
così un doppio binario: l’artista e il poeta, compresenti nello stesso
soggetto, danno vita a due produzioni diverse, ma complementari.
Il poeta, 1911 |
Il suo
essere poeta è molto simile al suo essere pittore, ma mentre la pittura ha
tonalità più negative, la poesia dà bagliori di speranza: là l’artista è in
ginocchio (es. Autoritratto nudo in
ginocchio, 1910) , qui è esaltato come il migliore degli uomini, come colui
che parla la lingua degli déi («parlo la
lingua del creatore»; «gli artisti
sono in rapporto diretto con il divino»; «sono spiriti eletti»). Chissà se il nostro puer aeternus sapeva di essere un “uomo a due dimensioni”.
Autoritratto nudo in ginocchio, 1910 |
JessB
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