Google+ Viaggio Senza Vento: ARTE - Egon Schiele, l'insostenibile pesantezza dell'essere

giovedì 12 dicembre 2013

ARTE - Egon Schiele, l'insostenibile pesantezza dell'essere



albero
L'albero, 1911


«Ho visto anzitutto gli eterni viali primaverili e la tempesta furiosa, e ho dovuto prendere congedo. Congedo perenne da ogni luogo della vita» Egon Schiele

Quella di Schiele è un’esistenza tormentata, l’esistenza breve e problematica di un puer eternus, un artista che vive appieno l’insostenibile pesantezza dell’essere.

1905: a Parigi, Dresda e Vienna nasce la prima Avanguardia storica, quella che verrà poi definita “fascia fauve-espressionista”: un asse che mette in collegamento tre stati nel nome di una referenzialità filtrata dal disagio. A fare da denominatore comune una sostanziale insofferenza nei confronti della forma e quindi della figura: la figurazione ormai è percepita come qualcosa di obsoleto che non può avere un futuro, è un nemico da combattere ma del quale gli artisti non riescono ancora a liberarsi (come invece farà l’Astrattismo dal 1910, riuscendo a superare la forma per entrare in una dimensione nuova, quella della non-rappresentazione).
Gli espressionisti vivono e soffrono questa contraddizione affascinante: odiano la figura ma continuano a dipingere in modo figurativo, dibattendosi tra il non più e il non ancora, non potendo far altro che infierire sulla figura, bistrattarla, ferirla, spezzarla, deformarla…
Chiaramente dobbiamo fare le debite distinzioni: i tedeschi spingono sull’acceleratore per portare la forma ad un grado di dissidio con sé stessa molto più forte di quanto facciano i francesi. I Fauves hanno nel loro DNA una mai abbandonata tendenza all’armonia, alla dolcezza, alla finesse; per quanto cerchino di essere crudi, non lo saranno mai come i tedeschi, i quali invece hanno una vocazione diretta alla brutalità.
Schiele fa di più: l’Espressionismo austriaco è più attento al corpo, alla fisicità, rispetto all’Espressionismo tedesco, che, pur non disdegnando il tema del corpo, non ne fa il suo cavallo di battaglia: nelle opere di Kirchner per esempio ci sono anche paesaggi, città, piazze berlinesi. È difficile trovare un paesaggio o una piazza in Schiele: nelle sue opere ci sono corpi, e sono spesso nudi e soli; uomini soli, alberi soli, primissimi piani di persone, case a volte, ma mai paesaggi. La sua è una pittura rapida, diretta, immediata, pulsante, sgrammaticata, nevrotica, impietosa nei confronti del corpo. Il suo è un disegno feroce, crudele, che mette in scena fisionomie artritiche, deformi, mutile. 

nudo
Nudo di ragazza con braccia incrociate sul petto, 1910
Ma che dipinga un committente, la sorella Gerti, un albero... poco importa. In fondo si tratta sempre e comunque di autoritratti, in cui Schiele sfoga le proprie inquietudini, dichiara la propria avversione nei confronti del mondo, confessa le proprie paure, quel suo sentirsi indifeso difronte al mondo.
Il tema dell’autoritratto è un tema estremamente rilevante per la storia dell’arte, un tema che ha attraversato i secoli. La maggior parte degli artisti ci si sono confrontati, molti hanno cercato il senso dell’arte attraverso il senso della propria immagine, ma pochi lo hanno sviluppato così intensamente come Schiele e nessuno si è mai visto allo specchio in maniera così impietosa. Più di tutti egli ha voluto mettere in luce la brutta copia di sé. L’autoritratto per Schiele è un modo per confessare la propria inconciliabilità con le cose, il proprio disadattamento esistenziale, la propria incapacità di esistere. 
autoritratto
Autoritratto, 1910

Ma c’è di più… non solo Schiele se la prende con il corpo, egli concentra l’azione deformante su elemento in particolare: le mani. Non c’è nessuno che abbia trattato così intensamente le mani in tutta l’arte contemporanea.
Le mani sono la parte del corpo più materiale (perché pratica) e contemporaneamente la più spirituale: secondo la filosofia orientale è la parte del corpo che si può spingere più in alto, verso lo spirito, ma per farlo deve essere vuota. Esiste un aneddoto yogico che facilita la comprensione di questo concetto: c’è un’ampolla che contiene noccioline e c’è un uomo che è goloso di noccioline. La mano entra e si riempie di noccioline, ma in questo modo non può più uscire. Per uscire deve essere vuota, deve abbandonare le noccioline. Qui sta la forza dello spirito. La mano che entra nell’ampolla e vuole uscire con il suo carico di desiderio realizzato non è altro che materialità. Nel momento in cui rinuncia al desiderio invece diventa spirituale. Le dottrine orientali ci insegnano a rinunciare ai desideri materiali per raggiungere una dimensione spirituale (che non ha nulla a che fare con la religione...).
Quindi, li mani per essere spirituali devono essere vuote, e in genere nelle opere di Schiele lo sono, pur non essendo in grado di elevarsi a una condizione di armonia spirituale. Esse rappresentano il contatto con il mondo ma non si tratta di un rapporto sereno. Sono l’apogeo della simbologia del corpo shieleiano, la manifestazione esteriore di una condizione interiore di disagio. E allora, se è vero che le mani in Schiele hanno una forte valenza spirituale, si tratta certamente di uno spirito tormentato, contorto. Persino in un’opera come Gli amanti, del 1917, sono la spia del tormento esistenziale dell’essere umano: anche nel calore dell’abbraccio, esse denunciano una divisione, una divaricazione, un disagio. C’è unione nei corpi ma disunione nelle dita che si divaricano.
 
amanti
Gli amanti, 1917
È qui, nelle mani, che si condensa tutta la tensione dell’artista espressionista, dell’artista e dell’uomo nella Vienna del primo Novecento: sulle spalle il peso di un passato glorioso e all’orizzonte l’imminenza dell’ingloriosa fine dell’Impero e di un’ epoca.
Ancora più significativo appare questo rapporto problematico con questa parte del corpo se pensiamo al fatto che Schiele lavora con le mani, sono il suo strumento di lavoro, quindi il suo organo fondamentale. Per altro egli aveva un metodo di esecuzione molto rapido e sicuro, non cancellava mai. Eppure se osserviamo le immagini, vediamo dita divaricate, sempre molto nervose, legnose; posture ai limiti dell’alienazione; mani che vivono di una vita autonoma rispetto ai corpi, come se non fossero terrestri; mani che di certo non possono essere utilizzate, come abbiamo detto, sintomo di un’alterazione psicofisica, specchio di un disagio. È una specie di confessione di disadattamento all’arte e alla vita. Due dita da una parte e due dall’altra, cosa altro possono significare se non la scissione dell’Io dell’uomo novecentesco, sempre in bilico nella lotta tra Es e Superego? Tra l’artista e sé stesso? Una sorta di schizofrenia vive in Schiele, una pluridimensionalità che si rivela anche nei suoi scritti e nelle sue poesie (scritte tra i 19 e i 20 anni). Schiele scrivendo ci stupisce, dimostra nelle poesie di essere anche innamorato delle cose del mondo e della vita, aprendo così un doppio binario: l’artista e il poeta, compresenti nello stesso soggetto, danno vita a due produzioni diverse, ma complementari.

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Il poeta, 1911
Il suo essere poeta è molto simile al suo essere pittore, ma mentre la pittura ha tonalità più negative, la poesia dà bagliori di speranza: là l’artista è in ginocchio (es. Autoritratto nudo in ginocchio, 1910) , qui è esaltato come il migliore degli uomini, come colui che parla la lingua degli déi («parlo la lingua del creatore»; «gli artisti sono in rapporto diretto con il divino»; «sono spiriti eletti»). Chissà se il nostro puer aeternus sapeva di essere un “uomo a due dimensioni”.

autoritratto
Autoritratto nudo in ginocchio, 1910
 JessB

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