Google+ Viaggio Senza Vento: ARTE - Dino Buzzati, l'attesa

sabato 1 marzo 2014

ARTE - Dino Buzzati, l'attesa



La grande luna nera, 1970

In Dino Buzzati, la città come meccanismo perverso vi abbiamo parlato della vocazione pittorica del celebre scrittore italiano.

Oggi proseguiamo questo viaggio tra arte e scrittura con uno dei tema costitutivi della letteratura occidentale: l’attesa.

È l’attesa di Maria, del Redentore, della Terra Promessa (Bibbia); è l’attesa di Penelope (Odissea); è l’attesa che condiziona la vita in Leopardi (Il sabato del villaggio) o in Kafka (Il messaggio dell’imperatore); è l’attesa come pienezza vitale in Hesse (Siddharta); è l’attesa come illusione, disperazione, miseria in Màrquez (Nessuno scriva al colonnello); è l’attesa che tiene in vita in Beckett (En Attendant Godot).

Serpeggiando tra le pagine della letteratura, l’attesa arriva a Buzzati insinuandosi nelle sue opere pittoriche come in quelle letterarie e spostando il senso del racconto da ciò che accade a una sostanziale mancanza di grandi avvenimenti: il “senso” in Buzzati sta in ciò che è solo lasciato intendere ma che l’autore tace.

L’esempio più eclatante forse è il racconto Qualcosa era successo: qualcosa sì, ma non sapremo mai cosa. Tutta la narrazione si gioca infatti sull’attesa del protagonista di scoprire cosa sia successo, ma naturalmente Buzzati si guarda bene dal dircelo e il lungo viaggio in treno si trasforma in un interminabile presente vissuto attraverso i pensieri di un anonimo viaggiatore.

Lo stesso accade in opere come Toc, Toc del 1957 e Adieu del1958: in entrambi i casi la sensazione è quella di un’immobilità esistenziale, una sospensione sia temporale che spaziale, data dal vuoto sostanziale dell’ambientazione e dal clima generale di attesa che avvertiamo misteriosamente. Il lupo sta bussando alla porta, cosa succederà? Il cane ulula senza voce sotto lo sguardo assente della presenza alla finestra, che ne sarà di lui?

pittura
Toc, toc, 1957
 
Adieu
Adieu, 1958

L’attesa come dimensione di sospensione enigmatica di sapore metafisico la ritroviamo in Buzzati in numerose opere pittoriche nonché in racconti e romanzi.

Pensiamo per esempio al famoso Il deserto dei tartari. Qui l’attesa diventa l’unica vera protagonista della vicenda. Il tutto si svolge in un tempo indeterminato (manca qualsiasi connotazione temporale) e in un non-luogo, la Fortezza Bastiani, che non possiamo collocare geograficamente perché manca qualsiasi indicazione spaziale logica, non è nemmeno segnata sulle mappe; sappiamo solo che si tratta di un’area di frontiera tra le montagne, che affaccia sul deserto, altro elemento dall’alto valore significante: è la materializzazione del vuoto, la metafora del nulla, l’archetipo del silenzio. Il deserto non è che una pianura immensa, che si spalanca davanti alla fortezza: da qui potrebbero giungere degli “invasori” non meglio identificati. 
Qui viene stanziato Giovanni Drogo, il protagonista, appena nominato tenente.
Quando parte alla volta di questo luogo enigmatico è entusiasta e carico di aspettative, ma ben presto avverte il vago presentimento di cose fatali. Alla fortezza non deve fare altro che attendere. I giorni, gli anni trascorrono uguali e monotoni irretendolo in una routin di azioni e gesti quotidiani. Si crea un clima di attesa inquieta, irrazionale, spasmodica, che fa perdere al protagonista (come a tutti gli altri abitanti della fortezza) il senso del tempo. Assistiamo a uno scollamento tra il tempo della realtà, che scorre inesorabilmente, e il tempo interiore, quello dell’esistenza individuale, fissato nell’immobilità dell’azione, nell’inazione connaturata all’attesa. Un giorno Drogo avvista una macchia nera nel deserto: “gli altri” stanno costruendo una strada. Un dispaccio avverte di concentrare le truppe. Si riaccende finalmente la speranza. È giunto infine il grande avvenimento, l’avvento dei tartari, l’unica cosa che può finalmente dare un senso a quell’attesa alienante che li aveva tenuti in ostaggio, tutta la vita (Buzzati suggerisce un’amara metafora dell’esistenza: tutto quello che ci fabbrichiamo dentro e addosso deve avere un senso, uno scopo, altrimenti è inutile, noi siamo inutili). Ma Drogo ormai è invecchiato e proprio quando i tanto attesi nemici sono alle porte, il comandante lo costringe a lasciare la fortezza. Andandosene vede i giovani soldati procedere verso l’attesa battaglia, l’agognata gloria. Infine, malato e solo, affronta l’unica vera battaglia, quella uguale per tutti, la sola per la quale non è vana l’attesa: la morte. Non c’è nulla di tragico tuttavia in questo, Dorigo muore con il sorriso sulle labbra. Qui come altrove la morte viene puntualmente esorcizzata da Buzzati come approdo logico e naturale, è un dato oggettivo, un dato di natura, è l’evento che dà la misura dell’uomo. Non per nulla nell’opera pittorica Il deserto dei Tartari, chiaramente riferita al romanzo, Drogo è fatto di nulla, è una divisa militare, si è trasformato in ciò a cui aveva donato l’esistenza annullando se stesso completamente.


Il deserto dei Tartari
Il deserto dei Tartari, 1970
La stessa dimensione sospesa di attesa enigmatica e fatale la troviamo in opere come Una fine del mondo, 1967. Una piazza sostanzialmente vuota, definita da due anonimi palazzi e dalla sagoma nera di una sconosciuta città, probabilmente Milano dal momento che quando si parla di città in Buzzati è sempre qui che ambienta romanzi e pitture. Unici elementi a rompere il vuoto della piazza desolata, una statua in controluce e quattro silhouettes di omini che fuggono. Ma la vera protagonista è la luna, gigantesca e incombente fino a diventare spaventosa. La stessa luna inquietante la vediamo in La grande luna nera, 1969. Questa volta la piazza lascia il posto a una porta di scatola gialla che non possiamo identificare con una struttura architettonica reale. Una minuscola figurina sta in piedi, immobile nel giallo piatto e silenzioso. L’immensa luna, nera questa volta, incombe dall’alto, lasciando presagire solo catastrofi.

Una fine del mondo
Una fine del mondo, 1967
Ne L’orologio, 1970, invece siamo in un interno, ma non per questo l’idea di un tempo sospeso e di un’attesa greve è meno palpabile. L’orologio in primo piano segna le 12 e 23 circa, il pendolo è bloccato, come immortalato durante la sua oscillazione. La ragazza, misteriosamente nuda, ci rivolge uno sguardo assente, vuoto. Regge nell’unica mano che vediamo un rosario. Il tono cupo e l’atmosfera buia sono rotti dal filtrare di un fascio di luce attraverso una porta, al centro della quale si staglia in controluce un’angosciante presenza. Non sappiamo se si tratti di un uomo o una donna, non sappiamo nemmeno se si tratti di un essere umano. Sicuramente, il suo stare in piedi immobile sulla soglia concorre, più di ogni altro elemento sulla tela, a generare una sensazione di sospensione enigmatica e inquietante. 

L'orologio
L'orologio, 1970
In tutti e tre i casi è forte la, più o meno esplicita, atmosfera metafisica. La piazza semideserta di Una fine del mondo, la muta presenza de La grande luna nera, l’orologio dell’omonimo dipinto, sono tutti elementi che inevitabilmente ci fanno pensare a Giorgio de Chirico. L’attesa e l’enigma d’altronde sono elementi connaturati alla pittura metafisica, per questo probabilmente Buzzati si sente così vicino a questa poetica.

Un altro esempio di narrazione in cui la vera protagonista è l’attesa, è Un amore (1963). Antonio Dorigo, architetto di 49 anni, conosce Laide, una giovane prostituta, che non ha nemmeno la metà dei suoi anni. Dall’iniziale indifferenza dell’uomo nei suoi confronti ci troviamo noi stessi invischiati in una spirale di passione irrazionale. Attraverso una subdola excalation di piccoli, inavvertibili eventi, Laide diventa ben presto una fissazione, un’ossessione, che fa perdere completamente la testa a Dorigo, il quale rischia tutto, e si trova sull’orlo del baratro, della rovina, completamente consumato dal desiderio di averla solo per sé. Lei, impudente e inafferrabile si muove leggera tra le pagine del romanzo con grande ingenuità e leggerezza. Ed è proprio questo a farlo impazzire. Per cui l’attesa, in questo caso, non si gioca sui tempi morti, come del Deserto, ma si inserisce in questa spirale infernale, prendendosi continuamente gioco di Dorigo, il quale non fa che aspettare, e più si innamora, più le attese diventano lunghe, strazianti, ridicole. Alla fine, quando finalmente Laide può dirsi sua, il desiderio sparisce. Laddove finalmente ottiene la dedizione esclusiva della donna, tutto perde improvvisamente significato. 

«Ma intanto lei, portata via dal sonno, inconsapevole del male che ha fatto e che farà, si libra sotto i tetti i lucernari le terrazze le guglie di Milano, è una cosa giovane piccolissima e nuda, è un tenero e bianco granellino sospeso pulviscolo di carne, o di anima forse, con dentro un adorato e impossibile sogno. […] Ma la città dormiva, le strade erano deserte, nessuno, neppure lui alzerà gli occhi a guardarla»

Nel Deserto, come in Un amore, ci troviamo difronte all’idea di una vita passata ad aspettare un evento che sia portatore di senso, di pace, di soddisfazione. Ma ciò non avviene mai e in entrambi Buzzati ci prospetta l’amara consapevolezza che il vero evento, l’unica cosa che rende magico e desiderabile l’obbiettivo, è l’attesa stessa.

L’attesa, insomma, è prima di tutto una condizione esistenziale, quella dell’uomo novecentesco, oppresso e alienato dai meccanismi della società contemporanea, imprigionato nella routin della vita quotidiana. Una vita vissuta in funzione di un futuro imprecisato, aspettando l’avvenimento che finalmente darà un senso a questa esistenza grama. La verità, lo sappiamo, è che non c’è nulla da attendere, se non la morte. 

JessB

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1 commento:

  1. Secondo me, l'attesa in Dino Buzzati, è l'annoiamento vitale e la voglia che qualcosa provochi un cambiamento di qualsiasi tipo.

    podi-.

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